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Viaggiare ristabilisce l’armonia originale che un tempo esisteva tra l’uomo e l’universo.

Ciutad Perdida - Colombia

Ciutad perdida, ovvero la città perduta.
Camminavo per le vie di Cartagena dopo un mese senza alcuna connessione internet. Mi chiedevo quali potessero essere le mie tappe future qui in Colombia. Ad un tratto, in un ostello vedo il cartello che promuove un trekking verso questa città perduta.

Il prezzo mi sembra accessibile e ho una gran voglia di camminare dopo un mese trascorso in mare.
Entro e prenoto per il giorno successivo.
La partenza del trekking è a Santa Marta, una tranquilla città poco distante.
Per raggiungerla occorre muoversi prima dell'alba, e così mentre la gente esce dai bar ubriaca e rientra negli ostelli barcollando io mi ritrovo ad aspettare seduto su un marciapiede un bus con il mio zaino carico di buone intenzioni.
Mi aspettano quattro giorni nella giungla della Sierra Nevada colombiana.
Siamo un bel gruppo, alcuni dei ragazzi erano clienti sulla barca El Gitano Del Mar pertanto già ci conosciamo.
A farci da guida due ragazzi indigeni, Jose e Abel. Vestono di bianco e hanno lunghissimi capelli corvini. La faccia è un poco appiattita e sono bassi di statura.
Il loro sorriso è contagioso e in pochi minuti instauriamo subito un buon rapporto.
Ci presentano il programma dei prossimi giorni e pare abbastanza serrato con una media di sette ore di camminata quotidiana e dislivelli di circa 600 metri.
Si parte.
Il primo giorno pesa soprattutto la levataccia da Cartagena e la grande umidità. La salita è semplice, a tratti addirittura una strada.
Arriviamo al primo accampamento in riva ad un fiume e li passiamo la prima notte dormendo nelle amache.
Inizia a fortificarsi il gruppo e il rapporto con le guide. Iniziano le prime battute e si prova a tirar tardi, ma la fatica è stata tanta e poco dopo siamo tutti a ciondolare sulle amache per il meritato riposo.
Sveglia prima dell'alba, il secondo giorno è il più duro.
A pranzo ci fermiamo sulle rive di un fiume e non resisto neanche un minuto, sono subito in acqua. La corrente è forte, ma ai lati più dolce. Mi attacco ad una roccia e galleggio a pancia all'aria. Guardo il cielo e il sole farsi largo tra i rami degli alberi, riesco perfettamente a distinguerne i raggi filtrare tra le foglie.
I ricordi scorrono nella mente come l'acqua del fiume, ripenso alle estati sulle rive del Trebbia e la bellissima natura circostante, le grigliate con gli amici, mi manca la condivisione di certi momenti.
Guardo ai lati del fiume le nostre guide, assorte nei loro pensieri, utilizzare uno strano strumento.
È un contenitore nel quale continuano ad inserire una bacchetta di legno che imbevono con la propria saliva. Poi passano la bacchetta ai lati, strofinandola. Si tratta del poporo, il loro simbolo, l'oggetto che meglio rappresenta la loro cultura. È un frutto, tipo una zucca, il cui manico diventa giorno dopo giorno più grande grazie al processo di strofinamento di questa bacchetta ai suoi lati. All'interno polvere di gusci di lumache di mare mischiata con altre sostanze, la cui preparazione è riservata allo sciamano.
Quando una persona parla, l'altra è tenuta a strofinare il poporo in modo da aumentare l'attenzione e la concentrazione. È anche uno strumento di riflessione e rappresenta la saggezza della persona che lo possiede.
Insieme al poporo noto che masticano spesso foglie che presto scopro essere foglie di Coca.
Anche questo è parte integrante della loro cultura e si salutano sul cammino scambiandosi foglie dalle proprie borse.
Sono affascinato dai racconti di altre culture e questa pare così antica e contemporaneamente così ben preservata nonostante i tempi moderni.
Nel pomeriggio non c'è spazio tuttavia per tutto ciò, la salita è estenuante e l'umidità disintegra le poche forze rimaste.
Riesco a gestire il diabete con un po di frutta ogni paio d'ore, ma vedo che il fisico è molto provato.
Al tramonto raggiungiamo l'ultimo accampamento a solo un chilometro dalla ciutad perdida.
È la salvezza, subito dopo cena mi precipito a letto, il giorno dopo la levataccia è importante per poter giungere primi al sito archeologico e poter godere così di una vista unica.

L'ultimo ostacolo è una salita di 1200 scalini che percorro con la voglia di un bambino al luna park.
In cima, davanti ai miei occhi si apre tra gli alberi della giungla i resti di questa antica città.
È stupore unico.
Terrazze circolari costituite da enormi massi che mi chiedo come possano essere stati trasportati fin li.
Mi rendo conto di essere in un nuovo territorio dopo le tante rovine maya e azteche visitate in Centroamerica.
Lo stile è differente, l'ancestralità è differente.
Scopro che per gli indigeni locali questa città non fu mai persa e che anzi, ogni anno viene chiusa 15 giorni per poterla purificare attraverso riti e cerimonie. Lo sciamano locale vive ancora tra queste mura e qui si recano gli indigeni per le proprie richieste e benedizioni.
È una sensazione difficile da spiegare camminare tra queste rovine così antiche e così vive ancora ai giorni nostri.
La città è stata "scoperta" nel 1973 e quindi da circa quarant'anni è aperta al turismo. In realtà la giungla ne preserva la sua bellezza poiché solo cento persone al giorno possono visitarla quotidianamente.

Passiamo circa tre ore a camminare tra le rovine e ad ogni angolo le nostre guide ci rivelano piccoli particolari di questa loro cultura.
Traspare emozione dai loro occhi quando ci spiegano certi rituali.

Il cammino, prima ancora del luogo perduto è stata un'esperienza coinvolgente.

Ancora una volta un buon esempio di valorizzazione di un sito archeologico senza cedere al turismo di massa.
Per me un incredibile esperienza a contatto con la natura e l'antica cultura degli indigeni locali.

Location (Map)

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