By Trip Therapy on Lunedì, 23 Giugno 2014
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Contano le cose meravigliose che incontriamo sul nostro cammino

A Lhasa c’è molto altro oltre al Potala Palace tra cui tutto il centro storico, ricco di templi, statue ed altari, e anche appena nei dintorni della capitale si ergono monumenti e monasteri sulle alte montagne da lasciare senza fiato.
E oltre la capitale c’è tutta quella zona che mi accingo a visitare attraverso la Friendship Highway, una strada di 806 chilometri che collega Lhasa al confine con il Nepal. Il termine della strada è un piccolo ponte, il “ponte dell’amicizia”, che è la vera frontiera tra questi due paesi. Dal mio punto di vista è un passaggio carico di molti significati perché è il mio primo attraversamento a piedi di una frontiera. Le altre frontiere infatti sono state tutte superate su diversi treni con gli ufficiali di dogana che salivano sui vagoni, controllavano, scambiavano due battute, timbravano e scendevano. Ora è profondamente diverso e sono emozionato all’idea, l’intero mio progetto è costruito intorno a questi passaggi.

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Sulla strada ho un altro appuntamento importante, la vera e propria catena himalayana e il suo mostro sacro: l’Everest. Come già ho avuto modo di dire l’Himalaya è vastissima e si presenta come un immenso altopiano sopra i 3500 metri con montagne intorno dai picchi a circa 5500/6000 metri. Ora il paesaggio sta cambiando, sulla strada attraverso diversi passi a 5200 metri con montagne all’orizzonte che superano ben altre altezze.
Il territorio sembra a tratti desertico, roccia e polvere, la temperatura è buona, ma i respiri si fanno faticosi. Una sensazione che ricorderò per sempre di questa magnifica regione è proprio la difficoltà nella respirazione. Per esempio tutti i monasteri hanno accesso unicamente attraverso gradini in salita la cui percorrenza risulta difficoltosa a causa dell’ossigeno rarefatto: la fatica che si fa sembra quasi comunicare che ogni singolo respiro non vada sprecato.
Ciò è vero qui in altitudine, ma è un insegnamento che mi porterò dentro anche per quando sarò qualche metro più in basso.

In questa parte di Tibet l’invasione cinese è meno visibile, la popolazione è prettamente locale e sono tutti vestiti in abiti tradizionali. Sono tuttavia presenti check point della polizia ogni 50 chilometri circa ed ogni volta c’è un controllo dei passaporti e dei permessi.
La strada è bellissima e da Lhasa arrivo fino a Shigatse, vera città tibetana con un monastero stupendo. La sera mi ritrovo a cenare in un ristorante tibetano dove tutto è incomprensibile e quindi si trasforma in una situazione divertente dove non ho assolutamente idea di cosa mi serviranno. Sono stato invitato in cucina per indicare cosa volessi, ma vi assicuro che è stato molto difficile anche così. Alla fine rimedio una zuppa con “ravioli”, un po’ di riso e delle ottime patate saltate. Me ne vado tra foto, sorrisi ed abbracci in quanto probabilmente pochissimi occidentali si sono mai presentati li. Il motivo è presto detto: tutti i viaggiatori diretti in Tibet devono farlo con tour organizzati, quindi spesso anche la scelta del ristorante è veicolata, quindi non autentica.
Io cerco da sempre di fuggire queste situazioni, mi piace perdermi in vie meno battute, confrontarmi con le realtà locali e provare il cibo comune.

Il giorno dopo il sole splende e sono elettrizzato all’idea di arrivare al campo base dell’Everest. Prendiamo una strada secondaria, tutta sterrata per circa tre ore. Tantissimi ancora i check point della polizia, ma all’orizzonte ecco stagliarsi il contorno del gigante: le nuvole si fermano ad un migliaio di metri dalla vetta innevata, è un quadro di pura bellezza. Sulla strada tanti bambini, figli di nomadi pastori, qui l’agricoltura non è praticabile.
Arriviamo nel tardo pomeriggio e il campo base è come me lo aspettavo: tende adibite a guest house. Ogni tenda può contenere al massimo sei ospiti, affinché tutti possano lavorare. Sono accoglienti e a conduzione famigliare. La mia è molto ospitale gestita da una giovane coppia con un bimbo di un anno bellissimo e vivace con cui inizio a giocare. In questo momento mi trovo ai piedi, si fa per dire, sono a 5400 metri, della più alta vetta della terra. L’emozione è forte, scruto il picco e mi accorgo come il tempo cambi ad una velocità assurda, la vetta è lontana e sembra minacciosa, non oso immaginare cosa abbia provato Messner che nel lontano 1980 è riuscito a scalarlo per primo da solo e senza l’aiuto di ossigeno.
La montagna mostra insidie e pericoli, minaccia morte e pensieri nefasti, ma al contempo, come una sirena omerica, sembra quasi con la sua bellezza invitarti a sfidarla. Non è il mio caso e torno dopo pochi minuti alla realtà del mio piccolo trekking dal campo base all’ultimo avamposto permesso, previsto per il giorno dopo all’alba.

L’alba del giorno dopo è anche il mio compleanno: trentatré anni nel punto più alto che ho mai toccato e durante il viaggio della mia vita che è il coronamento di un sogno. Il telefono non prende e nessuno dei miei compagni di viaggio sa che è il mio compleanno. Non posso condividerlo con nessuno, tranne che con la montagna che, durante la notte, mi fa il regalo più bello che potessi ricevere. Nel cuore della notte mi sveglio e non riesco a richiudere occhio. Mi accorgo che fuori c’è luce, tutti intorno a me dormono e allora provo ad uscire, convinto che fosse già l’alba. In realtà erano le due e quaranta circa e tutto il campo base dormiva. Il freddo era pungente, scopro successivamente che la temperatura era di circa -15 gradi. Mi giro verso sua maestà della natura e mi accorgo che non è solo. Il cielo è limpido all’orizzonte, non una nuvola, e alla sua sinistra la luna, quasi totalmente piena a illuminarlo. La neve riflette la luce della luna e arriva fino al campo base, ecco perché mi sembrava l’alba. Penso di dover fare almeno una foto, ma il freddo si fa sentire e rischierei di svegliare i miei compagni ricercando nello zaino tutto il necessario. La foto l’ho stampata nella mia testa ed è stato il più bel regalo di compleanno che il mondo potesse farmi.

Sento un gran casino l’indomani, una serie di turisti esagitati incominciano il loro trekking per ammirare più da vicino la montagna, ma il tempo cambia velocemente quassù e stamattina il cielo è cupo e nasconde la vetta. Passano le ore e la situazione è anche peggio, per cui dopo il trekking iniziamo la discesa verso il confine nepalese senza aver visto l’intera figura. Ciò che ero riuscito a vedere la notte prima acquista ancora più valore e sono contento di poterlo tenere dentro ai miei ricordi. Solo, io e la Montagna. Poso alcune pietre, una dedicata al mio sogno e spero porti buona fortuna.

La sera arrivo a Zhangmu un classico paese di frontiera, brutto e squallido, e dormo in una bettola per pochi euro. La mattina seguente mi aspetta l’attraversamento della mia prima frontiera a piedi., il Nepal, Kathmandu.

Sono riuscito a dormire la notte? Non tanto.

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