A bordo della nave cargo mercantile

"Ci deve essere qualcosa di stranamente sacro nel sale. È contenuto nelle nostre lacrime e nel mare."
"Nel mare non c’è distinzione tra est e ovest, sono le persone a creare queste distinzioni."


Ventisei giorni di viaggio.
Da Adelaide, in Australia, fino a Vancouver, in Canada. Passando per la Nuova Zelanda e le isole Fiji.
L’occasione di disimbarcare qualche ora ad Auckland dopo una settimana di navigazione con il mare che non mi ha lasciato in pace. Onde che di notte aprivano i cassetti della cabina, membri dell’equipaggio che stavano male, ma io tutto sommato non l’ho patito troppo.
Giusto il tempo di incontrare un vecchio amico conosciuto in viaggio, berci una birra insieme e ricevere notizie da casa.
Riparto, dopo quattro giorni giungo alle isole Fiji. Finalmente l’occasione di stare sulla terraferma una decina d’ore. Trovo una spiaggia, ma non riesco a godermela, il tempo è nuvoloso, d’altronde siamo all’inizio della stagione delle piogge sul tropico del Cancro.
Torno in porto, il cargo salperà in anticipo e per poco non rischio di rimanere a terra.
Mi imbarco per l’ultima volta, mi aspettano sedici giorni senza collegamenti con il mondo, io e il mare.
Il giorno dopo sulla nave si fa festa, il capitano ha deciso di regalare all’equipaggio una grigliata in mezzo al mare. È usanza così, quando si solcano gli oceani.
Due giorni dopo arrivo sull’equatore: il sole che tramonta a sinistra mentre a destra vedo sorgere contestualmente la luna. Non me ne accorgo subito, ma quello che mi aspetta è uno degli spettacoli più belli che abbia mai potuto assaporare.
Una notte di luna piena ad illuminare l’oceano pacifico. Il buio del mare squarciato da quella luce e intorno a me nulla. Una distesa d’acqua enorme, la profondità, di oltre 7000 metri, come volare. Sopra un cargo mercantile di oltre 200 metri, così piccolo, così minuscolo in mezzo a quel mare. Ed io, ancora più piccolo.
Resto un paio d’ore a contemplarla, ammaliato. Altro che un film.
Passo anche il tropico del Capricorno, oltre che dall’autunno alla primavera, dalla stagione delle piogge a quella secca.
Non solo.
Perché poi capita di attraversare una linea immaginaria di cambio data che mi ha fatto vivere un giorno due volte, proprio come nella storia del giro del mondo in 80 giorni.
È così che il tempo, come le distanze e le dimensioni, acquista totale e piena relatività.
Vivere un giorno due volte, già, come se non fossero abbastanza ventisei giorni senza toccare terra a parte le due fugaci presenze in Nuova Zelanda e alle Fiji.
Senza contatti con il mondo esterno, una piccola bolla sopra il mare.

Un viaggio infinito da una terra che ho agognato per dieci anni fino all’America.
Ne avevo bisogno.
Sì, davvero, ne avevo bisogno. Raggiungere l’Australia mi ha permesso di tagliare il primo importante traguardo del mio giro del mondo senza aerei. Mi sono sentito leggero a camminare nuovamente per le strade di Sydney.
Leggero perché svuotato.
È un anno che son partito.
Ciò che agognavo, fin dalla partenza, più di ogni altra cosa, era tornare in quella terra. Esserci riuscito dopo grandi difficoltà mi ha fatto sentire per un momento arrivato. Sicuramente a Sydney la sensazione di sentirsi a casa ha fatto il resto, ma in qualche modo ero appagato.
Ho attraversato frontiere all’apparenza impossibili, sono riuscito ad arrivare lì, senza aerei, dall’altra parte del mondo, agli antipodi.
Nulla di meglio quindi che un viaggio interminabile per essere catapultato in un nuovo mondo, un mondo che, tra l’altro, conosco pochissimo. A parte la California, l’isola di Cuba e lo Yucatan messicano non conosco altro dell’America. Nei miei piani mi aspetta circa un anno in quelle terre, tra nord e sud. Mi aspetta il Canada, prima, e poi gli Stati Uniti per un coast to coast da New York fino a San Francisco e poi giù verso l’alma latina: il Sudamerica.
Ma poi alla fine chissà cosa avranno in serbo per me le correnti dell’universo. Per la prima volta sono libero da date fisse, non ho scadenze, posso fluttuare liberamente.
Mi sento come quando stavo per entrare in India e anche in quel caso venivo da un’ardua esperienza introspettiva: il corso di meditazione Vipassana. Molto di ciò che ho compreso da quel giorno lo devo a quei dieci giorni di silenzio. E proprio come allora ho avuto i miei momenti di difficoltà. Allora dovevo combattere contro la mia mente, ma potevo uscire.
Stavolta no, prigioniero del mare.
Oggi è così, scruto l’orizzonte, è sempre lo stesso. Da venticinque dannati giorni è sempre il medesimo.
Mare, mare, mare.
Non una barca, non un delfino, non un’isola, niente a parte l’orizzonte.
Ma domani mi sveglierò sulle coste canadesi, ho una voglia matta di tornare sulla strada, di scoprire posti nuovi, di incontrare persone. Ho voglia di tornare a stupirmi.
Così mi son sentito, in gabbia, ma mi è servito. Ho davvero ricaricato le batterie, sono nuovamente carico di energia proprio come un anno fa, quando stavo lasciando la mia città, la mia famiglia, i miei amici, i miei affetti per andare incontro al mondo, alla Vita.
È un anno che sono in viaggio e se mi guardo indietro è volato.
Ogni giorno una scoperta, ogni giorno nuove esperienze, ogni giorno un cielo diverso, ogni giorno un orizzonte diverso.
Per gli ultimi venticinque giorni l’orizzonte mi sembrava sempre lo stesso, ma non era così.

L’orizzonte, ogni giorno, un po’ più in là.