Deserto del Sahara - Mauritania

Davanti ai miei occhi l’ultima vera e propria frontiera. Dalla Mauritania al Marocco, passando per il Sahara occidentale, un territorio conteso che lotta per la propria indipendenza. Come il Tibet, come il Manipur e la Casamance. Ho una naturale simpatia verso queste lotte indipendentiste, ma stavolta il rischio era tangibile.

Quell’ultima frontiera terrestre presentava cinque chilometri di terra di nessuno, terra condita da diverse mine anti uomo. Ne era pertanto vietato l’attraversamento camminando. Fortunatamente il popolo mauritano è il piu ospitale che abbia conosciuto in questo viaggio e non mi ha abbandonato. Ahmed, un camionista diretto a Dakhla, mi carico’ in cabina.
“Passeremo la frontiera verso le tre, inschallah”
“Inchallah” replicai. Inshallah è una delle poche frasi che ho imparato in arabo, significa “Se Dio vuole”.
Per arrivare a quel camion avevo celebrato a dovere la corsa verso l’ultima frontiera del mio viaggio: ero partito da una città nel mezzo del deserto del Sahara verso Ouadane con due dromedari e un cammelliere al seguito. Centoventisette chilometri di cammino sulla sabbia e le dune: i dromedari erano utilizzati come bestie da soma e raramente venivano cavalcati. Cinque giorni disperso tra quelle terre aride, fidandomi ciecamente del mio cammelliere, anch’egli chiamato Ahmed. Un signore anziano, magro, con la pelle scura, secca, bruciata dal sole e consumata dalla sabbia e il vento del deserto. Parlava unicamente arabo e le poche parole francesi che conosceva erano le mie medesime. La comunicazione era difficile e basata maggiormente sui gesti e sulle espressioni. Imparai alcune frasi per poter intrattenere almeno i saluti. Oltre “Inschallah” c’è “Alhamdulillah”, ovvero “Lode a Dio” e viene utilizzata una volta raggiunta una destinazione, prima e dopo aver mangiato, solitamente per esprimere soddisfazione, o quando una data azione è andata a buon fine. Quest’uomo esperto, aveva passato tutta la sua vita a camminare nel deserto. Senza una bussola, qualche vestito, qualche coperta, un po’ di provviste e due dromedari. È una bella sensazione fidarsi di una persona, lasciandosi completamente guidare. È pericoloso, ma è così in tutti gli ambiti della vita.
Ahmed preparava un ottimo té mauritano. Era una sorta di rituale, come il mate in Argentina, o il chai in India. Il processo prevedeva di bollire l’acqua, porre mezzo bicchiere di foglie, lasciar riposare. Veniva poi versato lo zucchero nella teiera ed iniziava lo spettacolo dei bicchieri, riempiti e riversati proprio nella teiera, decine di volte. L’obiettivo era creare una sorta di schiuma che avrebbe favorito un gusto migliore.
“Alhamdulillah” porgendomi il bicchiere caldo
“Shukran” rispondo, ringranziandolo.
Cercavo di scrutare i suo occhi nascosti nel turbante, sarebbe bello poter parlare la medesima lingua e ascoltare le sue storie.
Nel deserto c’e qualcosa che è fin migliore delle storie di un cammelliere: il silenzio. È un silenzio a tratti irreale. Durante il giorno soffia un vento molto forte e il rumore è costante. Dopo il crepuscolo non vola letteralmente una mosca e il vento, d’improvviso, magicamente, cessa di soffiare. Dopo svariate notti trascorse nella natura mi ero stupito semmai del contrario, della moltitudine di rumori che la mia mente non poteva nemmeno immaginare, il mondo animale è più vivo nell’oscurità che durante il giorno. Contemplai quel silenzio, ancestrale, quasi mistico. Dietro le mie spalle la luna piena, gialla e gigante, stava sorgendo. Illuminava l’orizzonte rivelando il profilo delle dune.
E spostando lo sguardo di là da quell’orizzonte la notte, scura ma brillante di stelle. E fredda, maledettamente fredda.
“Quante storie potrebbero raccontare le stelle?” tutte le notti rannicchiato nel sacco a pelo mi ponevo questa domanda.
La mattina appoggiando i miei passi nella sabbia cominciai a osservarla con maggiore attenzione. Come faceva Ahmed a saper dove andare?
“Deve esserci un segreto nella sabbia”
La sabbia del deserto è simile alla sabbia nel mare: ci sono le medesime linee sinuose. Il vento e le correnti marine sono gli autori di queste pennellate nella natura. Nel deserto sono come cartine geografiche per la popolazione berbera. Sanno leggere quelle onde lievi proprio come i marinai sanno leggere le onde del mare. E proprio come il mare, anche il deserto esige rispetto, Tanto può dare, ma molto può togliere.
Ahmed conosceva la strada e la mattina del quinto giorno, come da programma, raggiunsi Oudane. Ero nel bel mezzo del deserto e la via più breve per raggiungere la frontiera con il Sahara Occidentale era rappresentata da un viaggio sul retro di un pick up per quattro ore, e poi prendere un treno merci che avrebbe raggiunto la destinazione sedici ore dopo. Sono partito alla ricerca dell’emozionante momento dell’attraversare frontiere, ma anche raggiungerle poteva essere, a volte, maggiormente emozionante. Avventura, dubbi, informazioni frammentate, ma la certezza di essere in uno stato dove le persone non mi avrebbero mai lasciato in difficoltà. Era in atto un importante festival nella città così decisi di fermarmi una notte in più prima del lungo viaggio. La sera mi ritrovai in una piazza solo, unico straniero. Mi osservavano, ma cercando di eludersi.
“Amico, benvenuto al festival di Ouadane!”
“Shukran”
“Vieni ti accompagno a trovare un posto dove assistere allo spettacolo”
Si fece strada tra la folla e raggiungemmo il palco. Vi era una sorta di platea dove a sinistra vi erano sedute per terra le donne, a destra, anch’essi per terra, gli uomini. La mia guida si stava però dirigendo verso gli spalti, dove la prima fila era rappresentata dagli imam dello stato. Uno di essi insistette per lasciarmi il posto. Ero in prima fila, da parte alle autorità spirituali più importanti del paese, trattato come un ospite d’onore. Gli occhi puntati addosso e io che rispondevo con un sorriso.
Il giorno seguente, all’alba, partì. Le quattro ore sul retro del pick up furono le più fredde e polverose della mia vita. Viaggiavo con il cappuccio, gli occhiali e la sciarpa a farmi da passa montagna. Arrivammo in un villaggio desolato e dovetti registrami nella stazione di polizia. Mi spiegarono dove sarei dovuto andare per poter salir sul treno e come funziova il sistema. La Mauritania è uno dei paesi più ricchi al mondo di ferro e i treni merci facevano la spola tra il porto di Nuadibhou e le miniere, appeno poco più a nord di dove mi trovavo.
“Passeranno tre treni, ma solo uno si fermerà. Dovrai essere pronto dalle nove”
“Ci saranno altre persone?”
“Inshallah!”
“Già, inschallah…”

Era gia buio pesto quando giunsi al punto segnalatomi, intravidi delle persone e un fuoco.
“Salam maleik”
“Malekum salam amico, parli arabo?”
“No, direi di no” così mi invitarono a prendere un the con loro.
La temperatura iniziava a farsi molto fredda e alle nove passò il primo treno, senza fermarsi. Eravamo nel mezzo del deserto, da parte a delle rotaie, con un vento gelido ad aspettare il secondo. Giunse due ore dopo e non si fermò. Dovevamo aspettare il terzo che arrivò dopo mezzanotte. Si scatenò la corsa, ma cedettero il posto a me. Salì sull’alto vagone e mi ritrovai nell’unico scompartimento disponibile con almeno altre cento persone. Tutti addossati, neanche si poteva passare. Vidi chiamarmi un ragazzo, mostrandomi un pertugio. Mi accompagnò fino al lato opposto del vagone dove trovai un metro quadro libero e appoggiare il mio zaino. Visto che il pavimento era lercio decisi mettere prorio lo zaino per il dorso e utilizzarlo come materasso. Come cuscino avevo delle damigiane da parte. I miei piedi erano al lato della testa di un tipo, poco dietro la mia, anch’io avevo dei piedi. Stravolto, riuscì ad addormentarmi. Faceva molto freddo, ma la notte trascorse rapida. Credo di non aver mai viaggiato in condizioni estreme per così tanto tempo. Il treno si fermò sulla strada per permettere le preghiere quotidiane e almeno ebbi l’occhiasione per sgranchirmi le gambe. Arrivammo a Nuadibhou al tramonto e l’arrivo fu accolto con un corale “Alhamdulillah!”.
Il giorno dopo ero su un camion verso la frontiera, l’ennesimo autostop di questo viaggio, davanti all’ultimo timbro sul passaporto. Ai controllli mi fecero parecchie domande, ma mi lasciarono passare senza nessun problema, solo dovetti aspettare a lungo il camion di Ahmed perché sottoposto a diversi controlli. Ne aprofittammo per mangiare una tajin dalla parte marocchina. Dopo due ore di attesa ripartimmo e iniziammo una sorta di gimkana nel territorio minato.
“Secondo me non è vero che ci sono le mine!”
Io lo guardo con circospezione
“Sto scherzando, italiano!”



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