Kathmandu 3 anni dopo

Per la prima volta nella mia vita atterro all’aeroporto di Kathmandu. Non mi sembra vero quello che vedo fuori dal finestrino: a causa di un affollamento in pista dobbiamo sorvolare i cieli della capitale nepalese per circa venti minuti. Non è una seccatura, anzi. Al mio fianco svettano i giganti himalayani, posso facilmente riconoscere l’Everest e guardando il monitor dell’aereo mi accorgo che stiamo volando a circa 5000 metri.

Tre anni prima avevo raggiunto il Nepal proprio passando da li, a circa 5400 metri raggiunti con le mie gambe sull’Everest Base Camp. Non ho mai fatto segreto del mio attaccamento al Nepal e di come quel giorno, sul friendship bridge a collegare Tibet e Nepal il mio viaggio intorno al mondo fosse cambiato.

Per un paese in cui bastano poche settimane per visitarlo chiesi per la prima volta un visto di tre mesi. Conobbi Human Traction, l’associazione italiana che ho deciso di aiutare che si occupa di giovani ragazzi orfani e con seri problemi famigliari. Divenni per la prima volta vegetariano, scoprii e iniziai a praticare la meditazione, imparai piccoli lavori di carpenteria che mi vennero molto utili quando poi viaggiai in sudamerica, venni introdotto per la prima volta alla permacultura, strinsi legami forti con alcune persone che hanno profondamente segnato il mio viaggio e, non ultimo, mi ritrovai diciotto nuovi fratellini.

Vissi il Nepal dei monsoni, quello delle giornate uggiose, calde e umide. Me ne andai a fine agosto per dirigermi verso l’università del viaggio: l’India, vi trascorsi tre mesi finchè, a causa del mancato passaggio in Thailandia dalle isole Andamane e del mio visto indiano in scadenza dovetti rientrare proprio in Nepal. Vi trascorsi un altro mese e mezzo, questa volta proprio in questo periodo, tra novembre e dicembre. Tornai con la stagione secca e fredda la notte, scoprii un nuovo paese. Ebbi il tempo di consolidare ciò che avevo seminato tre mesi prima. Ebbi la fortuna di veder costruito un campo da calcio per i ragazzi dell’orfanotrofio, conobbi nuove straordinarie persone e ne riabbracciai tante altre. Me ne andai a metà dicembre verso la mitica frontiera tra India e Birmania che mi diede tanto da penare.

 

Tre anni dopo

Tornato dal mio giro del mondo lo scorso febbraio ho sempre avuto un solo pensiero in testa: ritornare in Nepal, quel luogo che mi aveva accolto come a casa dovevo ritrovarlo.

Nel mezzo la catastrofe del terremoto dell’aprile 2015 che ha segnato la forte crepa con il passato.

Cammino per la zona di Thamel, non sono solito alloggiare qui, preferisco Freak Street ma dopo il terremoto la guesthouse che mi ospitava ha cambiato gestione e ora i prezzi sono triplicati. Accetto un’altra soluzione e mi sposto quindi nella zona più turistica in assoluto della capitale.

Mi guardo intorno, poco è realmente cambiato e i primi cambiamenti che vedo sono tutti positivi: regna una discreta quiete, a causa del divieto di usare il clacson in città, che è quasi surreale. Vi è corrente elettrica ventiquattrore al giorno, nelle guest house ora c’è l’acqua calda e internet funziona che è una meraviglia. Ritrovo botteghe, ristoranti, negozi che ero solito frequentare. Sembra che il tempo non sia passato e che soprattutto la devastazione sia stata abbondantemente superata.

Sembra.

Sembra perchè poi quando mi avvicino a Durbar square già mi accorgo di una grande mancanza nella vista. Il tempio più alto di Kathamandu non c’è più. Sento il magone iniziare ad assalirmi, ma non è nulla finché non passo oltre la statua della dea Khali, dove non c’è più quasi nulla se non macerie. Il palazzo bello, monumentale, coloniale in marmo bianco è una crepa unica con i ponteggi a nasconderne i crolli.

Non è più lo stesso camminare tra quei ciottoli e lo leggi anche negli occhi delle persone che, come me, si ricordavano di quella meravigliosa piazza, una delle più belle e vive del mio giro del mondo. Ero solito prendere un masala tea e sedermi sui gradini dei templi ad osservare le persone, i loro visi, le loro storie. Dal Nepal in poi mi sono sempre ritagliato il tempo per questa attività: sedermi all’angolo di una piazza ed osservare. Lentamente, senza fretta.

Ora quei gradini non ci sono più. Ora quel tempio non c’è più. Ora anche quegli altri non ci sono più. Ora il palazzo delle Kumari è sorretto da travi di legno. Ora ci sono i ponteggi a mascherare lavori di restauro che in realtà non ci sono poiché sui tetti crollati è evidente il degrado con addirittura erbacce e rovi che crescono.

Mi fermo a dialogare con un mercante, si ricorda di me o almeno così dice. Afferma che la ricostruzione è ferma. Chiedono 1000 rupie a persona per entrare in questa piazza ma non si sa dove vadano realmente a finire tutti questi soldi. Mi racconta che per le stupa buddiste è diverso. Lì sono intervenuti più rapidamente e drasticamente e tutte le stupa più importanti sono state ricostruite.

Sgomento me ne torno in guesthouse.

L’indomani è sabato, in pratica l’equivalente della nostra domenica quindi ne approfitto per andare a ritrovare i miei fratellini nella valle di Kathmandu e poter trascorrere la giornata con loro liberi dalle incombenze scolastiche.

Sono particolarmente assonnato quel giorno e così gran parte del viaggio lo faccio dormendo.

Mi ritrovo quasi direttamente al villaggio senza rendermene conto. E qui le cose sono drasticamente cambiate: non ci sono più le case tipiche nepalesi in mattoni di terracotta color marsala. Oggi sono arrivate le ruspe e le nuove costruzioni sono una cementata unica tra l’altro con discutibili canoni estetici. Quel prezioso villaggio, a pochi passi dall’Himalaya ora non c’è più, sembra una periferia di Kathmandu. Ed è qui dove sto peggio, dove non mi sento più a casa, dove i ricordi mi assalgono con forte malinconia.

Il terremoto è nei villaggi sperduti dove ha fatto i danni più evidenti, e con la sua furia distruttrice si è portato via anche un gran pezzo di cultura che non tornerà più.